Avevano spento anche la luna

Avevano spento anche la luna Ruta Sepetys


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Avevano spento anche la luna





Giugno del 1941. Lituania. Una giovane donna e i suoi due figli, un bambino e una adolescente, vengono prelevati a forza da casa. Lina non ha neanche il tempo di cambiarsi, lascia casa per sempre con la camicia da notte. Insieme ad altri lituani, smarriti e spaventati, vengono caricati su un camion e portati lontano. Un lungo, lunghissimo viaggio in treno, assiepati in puzzolenti e bui vagoni merci, li porterà in un campo di lavoro. Ma questa storia che Ruta Sepetys narra in Avevano spento anche la luna non è quello che ci si aspetta. O forse sì, perché le tragedie così si assomigliano tutte, i destini si sovrappongono, il dolore si accumula e tutto resta incomprensibile. Ci strappa un «perché?» indignato e rabbioso. Perché quella di Lina, di Jonas e della loro madre Elena, non è la storia di una famiglia ebraica in cammino verso la Shoah. È qualcosa d'altro, ma in fondo anche lo stesso. Qui, invece delle SS c'è la polizia sovietica, e gli ordini arrivano da Stalin. Il progetto è quello di azzerare ogni forma di dissidenza o anche solo di identità nazionale, nei paesi baltici. Lituania, Lettonia, Estonia. Piegare una resistenza anche solo virtuale, sgombrare il campo - in senso politico e materiale. Centinaia di migliaia di persone furono così prese, malmentate, deportate verso una lontananza inimmaginabile, torturate e uccise. L'autrice è figlia di un ufficiale lituano. Non ha conosciuto direttamente questa storia, ma quasi. Ha, soprattutto, deciso di renderle onore, attraverso la memoria narrativa. Raccontando la storia di queste tre anime che il regime sovietico decide di far peregrinare per gli spazi sconfinati dell'Asia Centrale, impantanare per quasi un anno negli Altaj a tirare fuori barbabietole dalle gelida terra. E poi rimettere su un treno, settimane di viaggio ancora, verso la Siberia estrema, il circolo polare artico. Molta di questa gente tornò a casa, se tornò - e trovando degli sconosciuti a casa propria, in Lituania - solo a metà degli anni Cinquanta. Nel frattempo, cercò di costruire qualcosa fra i ghiacci, lassù. Sepetys racconta questa storia con intensità, e anche le scene più crudeli e assurde risultano purtroppo credibili, in quello scenario. Tutto ruota intorno a Lina, la protagonista, quindicenne all'inizio del libro: figlia del rettore dell'Università - che sparisce e non tornerà più - è vissuta negli agi, finché da un giorno all'altro si ritrova catapultata in una realtà dove una buccia marcia di patata è un bene da tenersi caro. Anzi da divorare prima che qualcuno te lo strappi via di mano. Lina è un'artista, o meglio la aspetterebbe un futuro di artista: disegna in modo strepitoso e L'Urlo di Munch è il suo modello. Sui treni, nei campi di lavoro, nelle steppe siberiane ghiacciate dove non c'è nulla se non un'umanità abbandonata a se stessa, troverà ispirazione. Per intanto, racconta la tragedia attraverso brevi scene in sequenza incalzante: succede di tutto in quei luoghi. Oltre a Lina e alla sua famiglia, c'è nel libro una galleria di personaggi accomunati dal destino eppure spesso distanti fra loro, quasi ostili. Il libro è pieno di piccoli e grandi eventi quotidiani, di imprevisti, tragedie, momenti toccanti. Tutto sembra quasi incredibile se non fosse che la storia è calco di una realtà, di vite veramente vissute così. Ruta Sepetys ha fatto ricerche, si è documentata, segue i suoi personaggi in un itinerario tanto assurdo quanto reale, dal Baltico fino all'estremo nord est, non lontano dal Polo. Con ciò, riesce a strappare da questa storia lo spesso velo d'invisibilità sotto il quale era rimasta nascosta, come capita a quei poveri prigionieri un giorno al porto, in Siberia, quando le guardie sovietiche li rinchiudono nella yurta per più di cinque ore, per tenerli nascosti alla nave americana attraccata per scaricare merci.

Literatura Estrangeira / Romance

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